Che importanza hanno i nomi? Quale significato assumono le parole che utilizziamo per definire le persone che ci circondano? Com’è noto, le parole non sono neutrali. Pierre Bourdieu, un sociologo francese, affermava a tal proposito che le modalità in cui chiamiamo – o veniamo chiamati – rappresentano un indizio importante della nostra identità sociale. Prendiamo il caso del clochard: questa parola viene dal francese, e significa «zoppicare», ma anche «persona poco intelligente, tarda». La condizione di homeless, o Persona Senza Dimora, le cui traiettorie di vita hanno portato a non poter usufruire di una casa, sono tante e variegate: la mancanza di un lavoro, l’esclusione abitativa, problemi con la giustizia, dipendenze… un mix di fattori biografici e strutturali. Una relazione dialettica tra esperienze di vita e difficoltà sociali. Cosa c’entra allora, «persona poco intelligente, tarda»? Si tratta di una barbara modalità con cui la società – meglio, i cittadini housed – definiscono consapevolmente o inconsapevolmente le persone senza dimora, relegando difatti il precipitare in questa condizione per una non meglio giustificata incapacità cognitiva. Come a dire: non ci sono colpe in una società che flessibilizza il mondo del lavoro, impone prezzi selvaggi per un affitto, no. La colpa di questa condizione è tua, sei tu che a causa della tua incapacità sei diventato un barbone.
Ecco appunto, barbone. Questa parola è il corrispettivo del clochard francese, e non ha di per sé un significato piacevole: deriva da «birbone», ovvero delinquente, malfattore. Ancora una volta, l’homeless non è una persona sfortunata che, per varie ragioni, si trova a vivere in strada. E’ piuttosto un criminale, una persona di cui non ci si può fidare, un poco di buono. Una viscida operazione linguistica con cui, con una semplice parola, si stigmatizza, si isola, si colpevolizza le esperienze di tante persone che, se pur possono aver commesso degli errori, di certo non meritano tutto questo odio lessicale. Per ovviare a quella che, a tutti gli effetti, è una mistificazione terminologica, numerosi organismi nazionali e internazionali che si occupano di queste persone si sono interrogate su una corretta modalità di nominarle, non solo per sconfiggere i numerosi stereotipi presenti nelle suddette definizioni, ma anche per rendere giustizia alla descrizione di un fenomeno complesso, in cui il disagio abitativo e relazionale si pongono in scale molto differenti tra loro. La risposta a queste domande operata dalle istituzioni pubbliche è la classificazione operata da Feantsa, chiamata ETHOS, in cui ad una diversa tassonomia corrisponde una condizione di disagio abitativo differente. Nel dettaglio, Ethos individua quattro macrocategorie: persone senza dimora, persone senza casa, persone che vivono in una condizione di insicurezza abitativa, persone che vivono in condizioni abitative inadeguate. Tra queste, la prima categoria rappresenta coloro che chiamiamo barboni o clochard: l’auspicio è che da questa ridefinizione lessicale possa nascere un sincero e sentito tentativo di ridefinire culturalmente la posizione sociale di persone che vivono ai margini della nostra società.
Mario Valente