L’UNICEF ha dichiarato il 12 febbraio la Giornata internazionale contro l’uso dei bambini soldato, un fenomeno che a lungo si è tentato di combattere, ma che purtroppo è ancora diffuso in diverse parti del mondo. «Se in passato i bambini venivano rapiti per essere impiegati nei conflitti, oggi si assiste a veri e propri reclutamenti volontari, frutto di un indottrinamento e di un generale deterioramento delle condizioni economiche tale per cui la vita sotto le armi è paradossalmente meglio di quella civile. Ma quali sono veramente le cause alla base di questa drammatica scelta? Quanto siamo responsabili, come Occidente, e quanto possiamo ancora fare per eliminare del tutto questa piaga sociale?». Sono le riflessioni e le domande che la ricercatrice Serena Doro si pone e pone sul numero di gennaio di “IRIAD Review. Studi sulla pace e sui conflitti”, la rivista curata da Archivio Disarmo che approfondisce proprio il tema dei bambino soldato. I quali vengono definiti dall’UNICEF «come persone sotto i diciotto anni di età che appartengono a forze o gruppi armati (regolari o irregolari) a qualsiasi titolo. Sono compresi bambini, ragazze e ragazzi arruolati non solo come combattenti, ma anche in qualità di facchini, cuochi, messaggeri, faccendieri, o schiavi del sesso».
Ma andando al di là delle categorie, quello che maggiormente spaventa sono i numeri e le storie. Tra 250mila e 300mila bambini nel mondo sono tuttoggi impiegati come piccoli soldati. 7mila solo nel 2018. Bambini soldati, baby kamikaze, minori affiliati nell’Isis che uccidono prigionieri. Tra loro si contanto 12mila tra morti e mutilati e 24mila violazioni a danni di minore. Il fenomeno dell’utilizzo di bambini soldato nei conflitti è una tragedia agevolata da almeno due fattori, uno giuridico e l’altro industriale. «Arruolare minori – scrive Serena Doro – è vietato da diverse convenzioni e trattati internazionali. Ma a livello pratico, sono ancora moltissime le organizzazioni nel mondo che ricorrono a manodopera infantile per svolgere compiti direttamente legati ai conflitti armati. Non esiste a livello internazionale nessuno strumento che sanzioni chi si macchia di tali crimini senza aver ratificato le sopracitate Carte di Diritti, essendo quest’ultime, espressione del diritto pattizio e pertanto vincolanti solo per i contraenti».
Ed a pesare è anche la responsabilità diretta dei produttori di armi: «L’uso di bambini soldati e paradossalmente reso più facile dall’evoluzione tecnologica dell’industria bellica. Sono ormai ampiamente diffuse e facilmente reperibili armi leggere e di piccolo calibro: attrezzature che non hanno bisogno della forza fisica di un adulto per essere impiegate e che di conseguenza divengono ottimali per essere distribuite e adoperate anche dai minori». C’è un’intera generazione, dunque, che sta crescendo all’ombra dell’odio, della vendetta, della morte. Perché i bambini sempre più spesso stanno diventando armi del terrore, di distruzione, di paura. Sparano, giustiziano, si lasciano esplodere in aria. Dall’Isis a Boko Haram, passando per Afghanistan, Colombia, Sud Sudan ed altri Paesi, ci sono bambini che non hanno mai conosciuto la pace. Che non giocano, che non studiano, che non ridono.
In particolare, l’UNICEF quest’anno, in coincidenza con la Giornata internazionale contro l’uso dei bambini soldato che ricorre il 12 febbraio lancia un appello per i programmi che forniscono indispensabile assistenza ai bambini e ragazzi smobilitati da gruppi e forze armate nel Sud Sudan. Secondo l’agenzia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ONU che si occupa di promuovere i diritti dei piccoli nel mondo, «senza finanziamenti aggiuntivi entro la fine di marzo potrebbe diventare impossibile garantire il delicato e costoso processo di transizione alla vita civile per circa 900 minorenni dei quali è stato già negoziato il rilascio. Il programma triennale di reinserimento sociale ha un costo medio di circa 2.000 dollari per ciascun minore e include il supporto psicologico, la presenza di un operatore sociale dedicato a ogni singolo caso, le attività funzionali alla riunificazione familiare, l’istruzione e altri servizi vitali per aiutare questi bambini e ragazzi a ricostruire le propria vita».
Anche perché, «con la probabile formazione entro febbraio di un governo di unità nazionale nel Sud Sudan – dilaniato da anni da un conflitto interno – e l’auspicata instaurazione di una pace duratura, saranno ancora più numerosi i bambini e i giovani smobilitati e bisognosi di assistenza. In assenza di un sostegno adeguato, – prosegue l’UNICEF – il rilascio di un minore ex combattente può avere ripercussioni negative nel lungo periodo, per lui come per la sua comunità. Il programma di recupero degli ex bambini-soldato è gravemente sotto-finanziato da oltre un anno. Fino a oggi l’UNICEF ha dovuto spostare fondi da altre aree di lavoro per assicurarne la prosecuzione, ma ora che i fondi sono finiti non abbiamo altra scelta che sospendere le attività di reintegrazione, a meno che non arrivino a breve nuovi finanziamenti». Di conseguenza, l’UNICEF Sud Sudan ha lanciato un appello da 4,2 milioni di dollari per il 2020 per coprire i costi delle nuove azioni di smobilitazione e reinserimento, e per consentire la prosecuzione del programma per i bambini e giovani già rilasciati. «Se il programma sarà adeguatamente finanziato, ne beneficeranno nell’arco dell’anno circa 2.100 bambini e giovani ex combattenti».
E.M.