«La pandemia ci ha dimostrato che sistema penale e penitenziario possono essere più miti e attenti ai diritti, senza che questo pregiudichi in alcun modo la sicurezza pubblica. Dunque, ci auguriamo che le istituzioni si facciano contagiare dal buon senso e ci si muova in una direzione di meno carcere e più opportunità sociali». E’ uno dei passaggi fondamentali con cui Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, ha presentato il XVI Rapporto sulle condizioni di detenzione il cui titolo è “Il carcere al tempo del Coronavirus”. Il XVI Rapporto è diviso idealmente in tre parti: prima, durante e dopo la pandemia. E questo la fotografia che ne viene fuori. «Erano 52.679 i detenuti presenti nelle carceri italiane lo scorso 15 maggio. 8.551 in meno rispetto a fine febbraio. Il tasso di affollamento attuale è del 112,2%, mentre due mesi e mezzo fa era del 130,4%. Da 5 anni, dal periodo post sentenza Torreggiani, il numero di persone recluse nei penitenziari italiani non era così basso. Da allora era stata una costante crescita fino alla quota di 61.230 registrata proprio alla fine del mese di febbraio. Il rischio, denunciato anche in passato da Antigone, era che questo costante aumento avrebbe potuto portare il sistema carcerario nuovamente a quella condizione che costò all’Italia la condanna della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo per trattamenti inumani e degradanti».
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Ma poi è arrivato il Coronavirus, ed anche il sistema carcerario ha dovuto fare i conti con il virus che ha sconvolto la vita e la quotidianità di tutti. Detenuti e agenti penitenziari compresi. «Lo scoppio della pandemia – ha sottolineato Gonnella – ha messo a nudo tutte le problematiche del nostro sistema penitenziario che da anni andiamo sottolineando e denunciando, in primis quello del sovraffollamento. Anche nei precedenti rapporti sottolineavamo come servissero politiche penali e penitenziarie più miti, con un utilizzo meno frequente della custodia cautelare e la concessione di misure alternative alla detenzione per tutti quei detenuti, erano quasi 20.000, che hanno pene da scontare inferiori ai tre anni. Improvvisamente, la necessità di fare spazio per prevenire i contagi, ha visto mettersi in moto una macchina che in poche settimane è riuscita a fare quello che fino a pochi giorni prima dello scoppio della pandemia sembrava impossibile solo a dirsi». I detenuti in due mesi e mezzo diminuiscono del 13,9%. Da fine febbraio al 19 marzo le presenze in carcere sono calate di 95 persone in meno al giorno. Questa tendenza accelera con l’entrata in vigore del decreto “Cura Italia”, che prevede le prime misure deflattive: dal 19 marzo al 16 aprile la popolazione detenuta cala ulteriormente di 158 persone al giorno. Dal 16 aprile 2020 in poi il clima cambia. Si pone il tema delle scarcerazioni di persone appartenenti alla criminalità organizzata e le presenze in carcere iniziano a calare di 77,3 presenti al giorno, meno della metà di prima.
Il Garante nazionale riferisce che le detenzioni domiciliari concesse fra il 18 marzo e il 15 maggio erano 3.282, e in 919 casi era stato adottato il braccialetto elettronico. Sono persone condannate per reati non gravi con meno di 18 mesi da scontare. «Un altro aspetto importante è stata la concessione di strumenti tecnologici attraverso i quali i detenuti potessero sentire i propri familiari – ha dichiarato ancora Gonnella». Anche in questo caso, da tempo Antigone conduceva una battaglia affinché il carcere si aprisse a questi strumenti di comunicazione. «I 10 minuti a settimana di telefonate, così come previste nell’ordinamento penitenziario del 1975, potevano forse andar bene all’epoca, ma di certo non oggi. Anche in questo caso ci siamo sempre sentiti rispondere che questa dotazione avrebbe posto problemi di sicurezza. Con lo scoppio della pandemia e la chiusura dei colloqui in presenza sono arrivati nelle carceri oltre 1.600 tra smartphone e tablet e il numero di telefonate concesse settimanalmente è stato aumentato».
Tra gli alti dati contenuti nel report, da rilevare che nel 2019 sono stati 53 in totale i suicidi negli istituti penitenziari italiani (dato confermato sia dalla fonte del DAP che da Ristretti Orizzonti) a fronte di una presenza media di 60.610 detenuti ovvero un tasso di 8,7 su 10.000 detenuti mediamente presenti, a fronte di un tasso nel paese di 0,65 suicidi su 10.000 abitanti. Al 14 maggio i suicidi in carcere nel 2020 sono stati 17. Per quanto riguarda gli atti di autolesionismo, tra gli istituti visitati da Antigone nel 2019 svetta nel numero assoluto Poggioreale con 426 atti (18,79 su 100 detenuti); mentre il valore più alto ogni 100 detenuti lo detiene l’istituto di Campobasso con 110,43 atti ogni 100 detenuti, seguito da Belluno che sfiora quota 100 (98,72).
La polizia penitenziaria è la figura professionale numericamente più presente negli istituti penitenziari. Ha una pianta organica di 37.181 unità e un sotto organico del 12,3%. Al nord la carenza di organico raggiunge il -14,7%, al centro Italia è molto simile (-13,9%) mentre al sud è del -9,4%. Il numero di detenuti per ogni agente è di 1,9, migliore della media europea, di 2,6 detenuti per agente (secondo i dati SPACE del 2019). Gli educatori sono 774 mentre l’organico previsto è di 895 persone (ovvero -13,5%). Ciò significa 1 educatore ogni 79 detenuti. In termini percentuali è il centro Italia a soffrire maggiormente della carenza di questa figura professionale (-15,7%) mentre nel nord Italia la carenza è del 11,5%. Mancano anche i direttori. Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio di Antigone, solo in poco più della metà degli istituti visitati c’è un direttore incaricato esclusivamente in quell’istituto. Fortunatamente è stato bandito un concorso per l’assunzione di 35 nuovi direttori. Dai dati raccolti dall’Osservatorio di Antigone vediamo che i volontari sono circa 1 ogni 13 detenuti, mentre i mediatori culturali sarebbero presenti sono nel 9% degli istituti.
In dodici anni le misure alternative sono cresciute di quasi 23 mila unità. 110 mila persone complessive sotto controllo penale. E funzionano. Un detenuto su 200 torna dentro per commissione di reato durante la misura. Eppure il budget del Dap è 10 volte superiore a quello del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. Senza di esse i numeri del carcere sarebbero esplosi. A fine 2008 tra detenzione domiciliare, affidamento in prova ai servizi sociali e semilibertà erano coinvolte 7.530 persone; 12 anni dopo, il 15 aprile 2020, erano 30.416. Nel 2008 le persone in detenzione domiciliare erano 2.257. Il 15 aprile 2020 erano 10.826. L’affidamento in prova ai servizi sociali nel 2008 riguardava poco più di 4.000 persone. Il 15 aprile 2020 erano 18.598. Allo stesso tempo la popolazione detenuta, dal 2015 fino al mese di marzo 2020 (cioè fino all’arrivo dell’emergenza sanitaria), è aumentata in maniera costante. Il totale delle persone in misura alternativa al 15 aprile 2020, messa alla prova compresa, era di 61.386. Le persone adulte sotto controllo penale erano dunque circa 110.000. Nel primo semestre del 2019, su 44.287 misure in esecuzione solo 1.509 erano state revocate: il 3,4%. Di queste, solo lo 0,5% (201) per commissione di nuovi reati. E costano poco, meno di un decimo del carcere. Nel 2020 il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità – che ha in carico le misure alternative – costava il 3,16% del bilancio complessivo del Ministero della Giustizia. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria il 34,3%.
Infine, secondo Antigone i dati mostrano come sia infondato lo stereotipo per cui in Italia chi va in carcere ne esce subito dopo. Il 27% aveva una pena compresa tra i 5 e i 10 anni (il doppio della Francia, a fronte di una media europea del 20,5), il 17% tra i 10 e i 20 anni (media europea del 12) e il 6% più di 20 anni (media europea del 2,5%). Gli ergastolani erano (e sono) più della media: il 4,4%, a fronte di una media del 3.