Questo articolo è stato pubblicato nel numero giugno/luglio 2020 del giornale di strada “Foglio di Via”
di Andrea La Porta
Il dramma delle guerre e dei profughi dilania ancora milioni di persone, peraltro in aumento negli ultimi tempi, rimanendo uno dei rebus di difficile soluzione del mondo contemporaneo. Ne abbiamo parlato con Carlotta Sami, che da più di quindici anni lavora nell’ambito delle relazioni internazionali e dei diritti umani (in passato è stata direttrice generale di Amnesty International in Italia). Attualmente ricopre l’incarico di portavoce per il Sud Europa dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).
Il rapporto Global Trends rivela che, alla fine del 2019, risultavano in fuga 79,5 milioni di persone: come mai questa cifra record? Dobbiamo rassegnarci ad un’escalation di guerre e violenze?
«L’elevato numero del 2019, rispetto ai 70,8 milioni di persone in fuga registrati alla fine del 2018, dipende dalle crisi verificatesi lo scorso anno, in particolare nella Repubblica Democratica del Congo, nella regione del Sahel, in Yemen e in Siria, quest’ultima responsabile dell’esodo di 13,2 milioni di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni, più di un sesto del totale mondiale.Il secondo fattore è relativo al particolare caso dei cittadini venezuelani. Sono 3,6 milioni gli sfollati che si trovano al di fuori del proprio Paese. Molti di loro non sono legalmente registrati come rifugiati o richiedenti asilo, ma necessitano comunque di una qualche forma di protezione».
Nell’area mediterranea esistono conflitti tra i più lunghi e sanguinosi, come quello in Libia. Le prospettive sono di pace o si profilano altri migliaia di profughi?
«I rifugiati e richiedenti asilo in Libia continuano a trovarsi in situazioni di seria difficoltà. La maggioranza di loro non riescono a trovare lavori giornalieri che li sostengano a causa del coprifuoco in atto e in un contesto dove i prezzi del cibo e dei beni di prima necessità sono aumentati in modo drammatico. Molti rifugiati dicono che riescono a permettersi solo un pasto al giorno. L’aiuto che forniamo insieme al WFP (Programma alimentare mondiale) si inserisce in un momento critico e sarà una salvezza per alcuni dei rifugiati e richiedenti asilo più vulnerabili che vivono nelle aree urbane. La maggior parte di loro contava su lavori giornalieri che sono ora scomparsi, a causa delle restrizioni ai movimenti imposte dal COVID-19. Queste persone vivono alla giornata».
Come sta incidendo il coronavirus nei contesti di violenza? Paradossalmente può diventare un alleato di tregue ed accordi di pace?
«Più di 70 milioni di persone, tra profughi o sfollati, appartengono alle categorie più vulnerabili al Covid e alle sue conseguenze e quasi il 90% di loro si trova in Paesi poveri e con strutture sanitarie deboli. Tre quarti dei rifugiati vivono in campi sovraffollati, insediamenti, rifugi o centri di accoglienza nelle aree urbane, dove non hanno accesso a un’adeguata assistenza sanitaria e servizi igienico-sanitari. Il distanziamento sociale e il lavaggio delle mani in acque pulite sono difficili, se non impossibili. Per combattere efficacemente qualsiasi emergenza sanitaria pubblica, tutti – compresi rifugiati, richiedenti asilo e migranti – devono avere accesso a strutture e servizi sanitari.Il Covid ha avuto un impatto su molte delle attività che svolgiamo, e certamente non ha fermato le guerre».
Quali attività concrete porta avanti l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati? Dove siete maggiormente presenti?
«L’UNHCR continua a lavorare al fianco di rifugiati e sfollati ovunque ci sia bisogno, incluse le aree di crisi. Nel contesto della pandemia, stiamo continuando offrire supporto e lavorare insieme alle istituzioni e partner locali. I nostri team lavorano 24 ore su 24 per prevenire lo scoppio di focolai e dare supporto generale, per esempio attraverso la distribuzione di sapone, l’accesso all’acqua pulita, la formazione degli operatori sanitari, la costruzione di strutture di isolamento o campagne di informazione sulle norme igieniche. Abbiamo anche aumentato i nostri mezzi di sussistenza e programmi di assistenza in denaro».
Quali prospettive hanno i giovani che crescono e conducono parte considerevole della loro vita in un campo profughi?
«L’UNHCR promuove e supporta numerosi progetti per incentivare l’istruzione elementare e secondaria, che sono la chiave per garantire un futuro migliore ai rifugiati. Per quanto riguarda la realtà italiana, proprio in questi giorni è stato siglato un Protocollo d’intesa tra undici università italiane, il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione, l’UNHCR e una rete di partner che darà a venti studenti rifugiati attualmente in Etiopia l’opportunità di proseguire il proprio percorso accademico in Italia attraverso delle borse di studio. I recenti numeri dei Global Trends mostrano che sempre meno persone ogni anno riescono tornare nelle proprie case. Questo progetto, denominato UNICORE, rappresenta una soluzione innovativa, che offre protezione ai rifugiati, ma allo stesso tempo un fondamentale e reciproco scambio tra gli studenti e la comunità che li accoglie».
A livello italiano ed internazionale chi scappa da situazioni a rischio vede riconosciuto il diritto allo status di rifugiato?
«L’UNHCR detiene uno specifico mandato per lavorare insieme agli Stati nel consolidare i sistemi di asilo e garantire che ai richiedenti venga riconosciuta la protezione adeguata, sulla base della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951. Ogni Paese presenta una situazione a sé stante e in alcuni contesti le procedure di riconoscimento della protezione internazionale si rivelano più complesse che in altri. Là dove è necessario UNHCR sostiene questi processi affinché gli Stati diventino sempre più in grado di svolgere questa azione essenziale nel modo più efficace e professionale possibile. L’Italia ha progressivamente reso più efficace e preciso il lavoro cruciale delle commissioni per l’asilo, adottando approcci sempre maggiormente professionali».