Dall’altra parte del servizio in stazione, da senza dimora a volontario. La bellissima testimonianza di Ruggiero

di Ruggiero Di Cuonzo

«Donandosi si riceve, dimenticando se stessi ci si ritrova» diceva San Francesco D’Assisi. Quanto può essere vera questa frase lo si capisce nel momento in cui la si fa diventare modus vivendi e non la si relega nel cassetto delle buone intenzioni o degli ideali enunciati e ai quali non si è mai dato sostanza, forma fisica e tangibile.
La vita o forse i miei errori, hanno fatto sì che da una esistenza normale e per alcuni versi anche privilegiata, io mi ritrovassi nella condizione di senza dimora.
Una condizione condivisa, purtroppo, da centinaia di migliaia di uomini e donne nel nostro Paese e nel resto del mondo.

Quando ci si ritrova in quella condizione è come se si venisse proiettati di colpo in un universo parallelo a quello in cui si è vissuto fino ad allora.
Un universo fatto di solitudine, di affetti persi, di certezze che di colpo diventano dubbi e paure e che ti impediscono di fermarti a pensare a quello che ti è successo.
A stento riesci a conservare la tua dignità di essere umano e cominci a vagare, senza meta, in un luogo che non ti appartiene, che non conosci perché hai abbandonato il tuo paese per vergogna o per tentare di sfuggire ai fantasmi e ai demoni che ti assillano la mente, ma soprattutto l’anima.
Ti ritrovi a non avere più punti di riferimento. A non avere più affetti, famiglia, amici e tutto quello che riusciva a colmare il tuo bisogno di sentirti uguale a chi ti passa accanto e che ti regalava emozioni o dolori o qualsiasi altro sentimento comune a tutti gli uomini.

Da senza dimora non nutri più alcun sentimento, né più amore, ne odio e né altro. La tua vita viene governata solo dal bisogno. Il bisogno di assicurarti un pasto, un luogo dove trascorrere la notte e dove poterti lavare.
Il bisogno più grande, più difficile da soddisfare diventa quello di incontrare qualcuno che si accorga di te e che ti consideri alla stregua di qualsiasi altra persona e si interessi a te, alla tua vita e che si fermi a scambiare due parole.
Quando la tua priorità è il bisogno, non hai più modo di fermarti a pensare, a riflettere. Non hai pace e affronti i giorni che si susseguono, tutti uguali, con la consapevolezza di non poter affrontare i tuoi demoni.

Io, grazie a Dio, non ho conosciuto la strada, sono forse stato, immeritatamente, più fortunato di tanti altri. Ho conosciuto il dormitorio e le decine di altre vite violentate da errori propri o da un sistema sociale che emargina chi rimane indietro. Vite violentate dalle guerre o dalla fame. Vite che comunque continuano ad essere violentate dall’indifferenza.
Poi ho conosciuto il volto vero di questa Città. Quello che non fa rumore e silenziosamente si prodiga, tra mille difficoltà, per rendere meno desolata la vita degli ultimi, degli emarginati. Degli invisibili.
Quelli che ti donano attenzione e ti fanno sentire ancora uomo; ancora essere umano che ha disperato bisogno di ascolto e di emozioni e sentimenti quali l’amicizia, il calore umano. L’essere considerato.

Ho conosciuto i Fratelli della Stazione. Giovani e meno giovani volontari che hanno ristorato il mio corpo e la mia mente. Loro ci vedono benissimo. Non ci sono invisibili per loro.
Grazie a loro, e alla possibilità di entrare in un progetto di Housing Sociale della Fondazione Siniscalco Ceci-Emmaus sono riuscito a riprendere in mano la mia vita. Sono riuscito a fermarmi e volgere l’attenzione non più sui miei bisogni materiali ma sui bisogni della mia anima. A riflettere sui miei errori e darmi obbiettivi e ad ideare percorsi che potessero portarmi fuori dalla mia situazione attuale. Ci sono riuscito, quasi del tutto. Ora scrivo sul giornale Fogliodivia, collaboro con una società che si occupa di formazione e mi sono inserito nella società civile coltivando decine di amicizie e di interessi. La mia è una storia che ad oggi potrei definire a lieto fine.

Ma comunque ho avvertito che mi mancava qualcosa. Che non ero ancora soddisfatto e che avevo ancora dei vuoti da colmare.
Si, ho ricevuto tanto e continuo ancora a ricevere tanto. Ho capito che il vuoto che avvertivo potevo colmarlo solo dando indietro, almeno in parte, quello che ho ricevuto.
Ho cominciato così il mio primo giorno di servizio con i Fratelli della Stazione. Con molti di loro è nata una sincera amicizia e frequentazioni. Il mio primo giorno di servizio alla stazione a cercare di portar sollievo a chi vive nell’emarginazione più totale.
È un’esperienza che ti fa stare bene. Che ti riempie il cuore di gioia ma anche di dolore. Il dolore di incontrare vite tormentate come lo era la mia fino a ieri.

Dolore per la consapevolezza di non poter dare di più di quello che dai. Dolore per la cecità di quanti, tanti, indossano una benda sugli occhi per non vedere chi soffre accanto a loro. Dolore per le vite ormai andate come quella di Giovanna, di Fabio e di tanti altri.
Rivedi negli occhi di chi stai confortando, lo stesso smarrimento che era nei tuoi occhi, le stesse paure e le stesse speranze. E pensi che come tè quanti altri potrebbero farcela ad uscire da quella condizione se solo la collettività volesse prendersi carico dei loro problemi. Non solo dei problemi legati ai bisogni materiali, ma ai bisogni dell’anima.
Ora voglio incrementare il mio impegno. Lo voglio e lo devo. Sono in debito con la vita e i debiti vanno sempre onorati.
E se il mio impegno servisse, sia pure in parte infinitesimale, a salvare un’altra esistenza, avrà avuto un senso tutto ciò che mi è successo nel bene e nel male.