“Le invisibili”, il riscatto sociale di donne senza dimora grazie alla solidarietà di quattro assistenti sociali


La solidarietà può fare miracoli. Così come l’attenzione all’altra, il prendersi cura di una persona, il seguire i suoi passi incerti, stando però attente a non inciampare nei propri passi. Lo sanno bene le protagoniste del film “Le invisibili”, del regista Louis-Julien Petit, che racconta la vita di quattro assistenti sociali dell’Envol, un centro diurno che fornisce assistenza alle donne senza dimora. Quando il Comune decide di chiuderlo, si lanciano in una missione difficilissima: dedicare gli ultimi mesi della loro attività a trovare un lavoro al variopinto gruppo delle loro assistite, abituate a vivere in strada. E così la storia prende inizio e ci accompagna nella vite delle quattro assistenti sociali e delle donne che vogliono aiutare.

La pellicola non indugia tanto sui luoghi in cui le donne vivono, sulla loro sporcizia, sul degrado, quanto sui sentimenti, sulla loro condizione di invisibilità, sulle loro aspettative fin troppo stracciate e rovinate da una vita che le ha deluse. E che le ha fatte sprofondare da un punto di vista psicologico e dell’autostima. Ci pensano allora le quattro assistenti sociali a restituire un minimo di fiducia e di speranza nel futuro al gruppo di senza dimora. Prima di tutto, chiamandole per nome, restituendole un’identità, e poi cercando di scavare nelle loro attitudini e passioni, facendo una sorta di “bilancio di competenze” per aiutarle a trovare un mestiere che sia il più vicino possibile alle loro qualifiche anche informali. Ed in molti casi, ci riescono pure, sensibilizzando aziende ed imprese del territorio a dare fiducia a queste donne, che sempre grazie alle attività promosse al centro diurno lentamente provano a ricostruire un percorso di vita. Violando ogni regola e incappando in una serie di equivoci, dunque, le assistenti sociali riescono a dare delle risposte concrete a chi vive ai margini, a chi ogni giorno vive sulla propria pelle il disagio della povertà.

Uno degli aspetti caratterizzanti il film francese è che tutte le clochard (tranne una) non sono attrici professioniste, ma sono senza tetto che il regista ha voluto conoscere, incontrare per un anno frequentando diversi centri francesi, conoscendo il mestiere di operatore sociale. Ha preteso, inoltre, che anche le sue attrici facessero conoscenza diretto del lavoro nei centri accoglienza. Quello di Louis-Julien Petit, dunque, nonostante l’importante tema sociale è un film corale, divertente, emozionante, che non risparmia anche delle scene particolarmente forti, come quando la polizia sgombera le tende di notte, distrugge le baracche e posiziona blocchi che impediscono di dormire sulle panchine cittadine o sulla striscia di terra che separa le vetrine del negozio dalla strada. «Questa è casa mia» dice una senza dimora la poliziotto che la sta cacciando dalla sua tenda precaria. Perché quella è davvero «casa sua», il suo rifugio, il luogo in cui riposare dopo una giornata trascorsa a camminare da una mensa ad un centro diurno, da una doccia al giaciglio della sera. E solo chi non si avvicina mai alle vite dei senza dimora può non capire che anche una semplice ed innocua bista di plastica può rappresentare la sua casa, il suo mondo, tutto quello che ha e di cui ha bisogno. Per vivere, per superare un’altra lunga giornata.
Emiliano Moccia

L’articolo è stato pubblicato nel numero Gennaio-Febbraio 2021 del giornale di strada Foglio di Via sostenuto da Fondazione Vodafone Italia.