Prima parte
Selfie e investigation. Due termini all’apparenza inconciliabili, il primo in quanto simbolo dell’io che si riflette nell’autoscatto imperante, il secondo come metodo di conoscenza oggettiva del mondo. A metterli insieme ci ha pensato un progetto modulare, inserito nel Pon (Programma operativo nazionale) Noi Domani, che si intitola appunto Selfinvestigation. È stato l’Istituto di Istruzione Secondaria Superiore “Michelangelo Bartolo” di Pachino, in provincia di Siracusa, a proporre ai suoi studenti di partecipare a questo percorso, tenutosi lo scorso aprile, in cui meditazione personale e indagine sulla realtà provano a trovare un equilibrio e una conciliazione. In tutto hanno deciso di aderire 20 allievi suddivisi tra III C del Liceo classico (11), V B del Liceo scientifico (7), III D del Liceo delle Scienze umane (1), II A del Liceo Scientifico (1).
Il percorso proposto dall’antropologa Annamaria Fantauzzi
«Ogni africana stuprata è una donna bianca che si salva da uno stupro, perché è più facile fare violenza a una donna che non ha diritti». Sono parole di Isoke Aikpitanyi che Annamaria Fantauzzi, docente di Antropologia medica e culturale all’Università di Torino, ha riportato agli studenti del Pon. Quella di Isoke è una delle tante storie di vittime di tratta che subiscono le ragazze provenienti dalla Nigeria e da altri paesi del mondo, con la complicità delle maman e la connivenza talvolta delle stesse famiglie che picchiano le malcapitate se rifiutano di prostituirsi. Un inferno che inizia prima di arrivare in Europa, quando durante viaggi estenuanti tra deserto e mare si consumano le violenze da parte dei trafficanti. Situazioni estreme di cui spesso ci si dimentica di fronte alle tante prostitute straniere che si incontrano sulle nostre strade, ritenendo a torto che in fondo la loro sia una scelta e non frutto di coercizione.
Oltre l’etnocentrismo per comprendere la migrazione
«Essere costretti a viaggiare a causa di disuguaglianze economiche, sociali e sanitarie nell’accesso alle risorse – ha spiegato la professoressa Fantauzzi – è qualcosa che sfugge all’etnocentrismo, cioè a quella tendenza che consiste nel mettere la propria cultura al centro rispetto alle altre, pensando che sia la più importante». Occorre invece guardare al fenomeno migratorio con un punto di vista diverso, come quello che faceva dire ad esempio a Martin Luther King che «quando un uomo decide di voltare le spalle alla terra in cui è nato, vuol dire che la disperazione ha messo le radici nel suo cuore. E in nessun paese del mondo sarà mai lo stesso uomo». Nessuno, in sostanza, emigra spontaneamente. «Bisogna differenziare – ha continuato Annamaria Fantauzzi – la migrazione economica dalla migrazione forzata: la prima presuppone che si lasci il proprio paese alla ricerca di nuove opportunità, e si parla di effetto migrante sano, che affronta tutto con un progetto migratorio. La seconda indica un movimento di interi gruppi costretti a lasciare la terra natia a causa di tre possibili situazioni concernenti il contesto bellico, la persecuzione di natura religiosa, economica e politica, o le condizioni di estrema povertà. In questo caso si parla di effetto migrante esausto». Da qui le varie distinzioni tra profugo, rifugiato e migrante. Con il primo si indica chi lascia il proprio paese a causa di guerre o catastrofi naturali, mentre il rifugiato è colui al quale è stato riconosciuto tale status in base alla Convenzione di Ginevra del 1951. Il migrante, infine, è colui che sceglie di lasciare il proprio paese per cercare un lavoro e migliori condizioni economiche.
Genere, sesso, nudità: quelle differenze che contano
Per comprendere le diverse motivazioni che spingono a lasciare il proprio luogo d’origine bisogna andare alla radice di differenze ancora più profonde e radicali, a cominciare da quelle – spesso trascurate – tra genere e sesso. «Il genere – ha chiarito la docente – definisce la distanza tra categoria maschile, femminile e neutro. La sua definizione prevede l’insieme di tutti i comportamenti che avvengono all’interno delle relazioni in un determinato contesto socioculturale. Al contrario, il termine sesso appartiene all’ambito biologico, cioè si tratta di una semplice divisione tra mascolinità e femminilità, ma non esistono modelli universali». Da queste premesse muove il concetto antropologico di antropopoiesi che indica i vari processi culturali con cui si passa dall’essere individuo, cioè un organismo biologico che ha caratteri fenotipici, a essere persona, ossia un individuo che ha posizioni precise nella società. Persino la nudità non ha un’unica accezione e il suo significato muta al mutare delle latitudini. Alla nudità biologica si può contrapporre la nudità militante, cioè delle persone che attraverso il corpo nudo si ribellano o testimoniano delle forme di non approvazione per qualcosa, fino a quella culturale. «In Africa ad esempio il nudo è un’appartenenza culturale unitaria e non c’è vergogna, mentre nella società occidentale è visto come un atto di oscenità».
Le mutilazioni genitali femminili e come superarle
Le varianti di significato su nozioni quali corporeità e nudità non possono fare dimenticare, tuttavia, le piaghe della mercificazione, della tratta, della prostituzione e delle mutilazioni genitali femminili (MGF). Secondo i dati di Unicef e OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), in Africa sono circa 91,5 milioni le ragazze di età superiore ai 9 anni che hanno subito tale pratica. Quella africana non è l’unica cultura che la contempla, visto che si calcola che in tutto il mondo il numero di bambine e ragazze coinvolte si aggiri tra i 100 e i 140 milioni. In molti paesi, l’infibulazione è prevista come step fondamentale nella vita di una fanciulla che si appresta a diventare donna. «I motivi che spingono la popolazione femminile a sottoporsi a questa consuetudine – ha rimarcato Annamaria Fantauzzi -derivano da un approccio socioculturale androcratico, cioè dominato dall’uomo, in cui la donna è considerata non soltanto inferiore, ma merce di scambio. La compensazione matrimoniale o brideprice che avviene in alcune società, infatti, spesso si fonda sull’avvenuta mutilazione genitale che aumenta il valore economico della futura sposa». Oggi esistono alcune organizzazioni internazionali come AMREF (African medical and research foundation) ed EIGE (European institute for gender equality) che si battono per l’utilizzo di metodi alternativi tra cui, ad esempio, il “rituale alternativo” proposto dal medico Omar Abdulcadir che evita di segnare per sempre il corpo femminile. «Bisogna salvaguardare una tradizione a cui le stesse donne chiedono di sottomettersi, ma eliminando il carattere di modifica fisica permanente a favore del suo valore simbolico» ha concluso l’antropologa.
Nel frattempo, la battaglia a contrasto dello sfruttamento del corpo femminile e della sua mercificazione va combattuta anche dalle nostre parti con altri mezzi, vigilando ad esempio sui contenuti proposti nelle programmazioni televisive. Nel 2018 la RAI ha analizzato 1.100 trasmissioni, giungendo alla conclusione che nel 98,3% dei casi la dignità delle donne non veniva calpestata. Nell’era dell’hate speech dilagante sui social network è un segnale positivo da incoraggiare e allargare a tutti gli altri media.
(Articolo realizzato da venti studenti dell’Istituto di Istruzione Secondaria Superiore “Bartolo” di Pachino, coordinati dalla professoressa Manuela Caramanna, all’interno del Pon Selfinvestigation)
Foto: agopress.info