Marian, Rafael, Mario. Il coraggio della normalità è la loro testimonianza. Un senza dimora, un migrante, un cittadino. Le loro denunce hanno portato giustizia

Quando Marian ci portò a vedere il vagone nel quale erano stati assassinati i due rumeni, era un’autunnale domenica mattina. La nebbia ed una pioggerellina insistente rendevano l’atmosfera un po’ inquietante. «E’ qui che sono stati uccisi» disse Marian, mentre ci mostrava il luogo del delitto. Un vagone merci abbandonato fermo sui binari attigui della stazione ferroviaria di Foggia. «Io ho fatto solo il mio dovere. Era giusto così» ripeta spesso Marian quando si tornava a parlare del caso. Il caso in questione era il duplice omicidio dei due uomini, due rumeni, assassinati da dei loro connazionali. I loro corpi, in avanzato stato di decomposizione, furono ritrovati nell’aprile del 2011. Gli uomini della Squadra Mobile della Questura e della Polizia Ferroviaria, coordinati dalla Procura di Foggia, riuscirono ad identificare i due cadaveri ed a risolvere il caso arrestando i tre presunti responsabili, anche grazie alle testimonianza raccolte nel mondo dei cittadini stranieri e dei senza dimora.

Il senso del dovere di Marian
Marian Licsar fu uno dei testimoni. Uno dei cittadini che collaborò per fare luce sul duplice omicidio. E ne andava fiero. Lui, Marian, ingegnere meccanico, mezzo filosofo, accanito lettore di libri e di Nietzsche, fumatore di pipa, amante del rock, simpatizzante di Berlusconi, attento osservatore della vita e delle sue dinamiche. Un uomo il cui carattere polemico litigava con la dolcezza e la sicurezza che riusciva a trasmettere. La vita di strada lo aveva forse reso più spigoloso, ma non gli aveva sottratto il senso del dovere e della giustizia. Oggi Marian non c’è più. E’ morto nel 2016, ma conserviamo questa sua testimonianza di “persona perbene”, di chi non ha voltata la testa dall’altra parte ed ha fatto il suo dovere, contribuendo a far sì che giustizia venisse fatta. Un gesto, quello di Marian, che di certo non possiamo definire scontato in un Paese come l’Italia ed in una città come quella di Foggia, dove abbiamo imparato a dover diffidare – e seriamente – persino delle Istituzioni, di chi ci Governa, di chi Amministra la cosa pubblica.

La denuncia di Rafael
Il normale senso del coraggio di Marian, va di pari passo con quello di Rafael Landaverde, 39 anni, proveniente da El Salvador. Laureato in Informatica, nel suo Paese faceva l’insegnante. «Dopo aver denunciato lo spaccio di droga che la mafia locale faceva circolare nella mia scuola, fui minacciato di morte. Per questo, nel 2019 non volendo rischiare di entrare illegalmente negli Stati Uniti d’America, decisi di lasciare il suo Paese per chiedere protezione in Italia». Rafael e la sua famiglia sono stati accolti nel progetto SIPROIMI – Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati – promosso dal Comune di Poggio Imperiale e gestito dalla cooperativa sociale Medtraining. Per tre mesi Rafael ha svolto attività di tirocinio formativo nello Procura della Repubblica presso il Tribunale di Foggia, diventando uno dei pilastri fondamentali dell’URP – Ufficio Ricezione Atti della Procura di Foggia. Anche quella di Rafael è una storia che insegna come ciascuno di noi sia chiamato a fare la sua parte, anche se si trova a dover affrontare circostanze rischiose.

Testimone di giustizia
Lo ha sempre saputo bene Mario Nero, recentemente scomparso all’età di 58 anni, testimone di giustizia, testimone dell’omicidio di Giovanni Panunzio, l’imprenditore assassinato il 6 novembre del 1992 in via Napoli a Foggia perché si era ribellato alla mafia e al pizzo. Nero ha pagato sulla sua pelle quell’atto di generosità, di coraggio, di senso del dovere che contribuì ad arrestare il killer del costruttore, Donato delli Carri. Per dieci lunghi anni è stato sotto protezione, ha cambiato più volte località e residenze, è rimasto solo. Anche la sua famiglia gli voltò le spalle in quegli anni complicati. «Ho avuto due nemici nella mia vita: la criminalità organizzata foggiana e lo Stato» aveva ripetuto in più di una circostanza, quello che all’epoca dei fatti dopo aver visto in televisione l’appello lanciato dal figlio di Panunzio, Lino, non ci pensò due volte e raccontò cosa aveva visto, chi aveva incontrato quella sera maledetta, quando con il suo chihuahua fece faccia a faccia con l’assassino.  Marian, Rafael e Mario. Un senza dimora, un migrante, un cittadino normale. Tre storie, tre testimonianze a cui tutta la nostra comunità deve guardare, deve lasciarsi ispirare nel suo agire quotidiano contro illegalità, malaffare, violenza, criminalità, corruzione. Non è facile, ma è l’unico modo per non essere complici, per dare il proprio contributo, per non delegare sempre agli altri il destino di una città. Perché il destino di Foggia è legato indissolubilmente all’agire di ciascuno di noi.
Emiliano Moccia

(questo articolo è stato pubblicato nel numero Maggio-Giugno 2021 del giornale di strada Foglio di Via sostenuto da Fondazione Vodafone Italia).